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FINALITA’ DELLA TASSA DI SOGGIORNO

Per i Comuni non c’é obbligo di trasparenza né di rendicontazione –

La tassa di soggiorno – o city tax – è diventata una voce fissa nel conto finale di chi pernotta in strutture ricettive italiane. Introdotta con il Decreto Legislativo 23/2011, nasce come contributo per compensare l’impatto del turismo sulle città.
L’intento originario è condivisibile perché chi visita una città contribuisce al mantenimento dei suoi servizi. Ma oggi, a distanza di un decennio, crescono le critiche su costi, trasparenza e gestione.
Sulla carta, la tassa dovrebbe servire a mi gliorare i servizi turistici, finanziare la manutenzione di monumenti e aree urbane, rafforzare il trasporto pubblico, sostenere la raccolta rifiuti nelle zone ad alta affluenza e incrementare la vigilanza urbana. Un gettito, quindi, teoricamente vincolato al miglioramento dell’esperienza turistica. In pratica, però, la realtà è spesso un’altra. Secondo numerose inchieste e denunce – tra cui quella di Codacons e Confesercenti – molti Comuni utilizzano i fondi della tassa per coprire voci di bilancio estranee al turismo, come stipendi del personale, manutenzioni ordinarie o spese generiche non meglio specificate.
Non esiste un controllo centralizzato sull’utilizzo di queste somme né un obbligo di rendicontazione trasparente. I bilanci comunali spesso non indicano nel dettaglio a cosa questi fondi vengano effettivamente destinati. Un caso emblematico è stato segnalato a Roma, dove parte del gettito sarebbe stata utilizzata per coprire voci generiche di “servizi generali del Comune”. Anche a Napoli e Firenze le associazioni di albergatori hanno sollevato proteste per l’assenza di report pubblici chiari.
Nel frattempo le tariffe della tassa sono in costante crescita. A Roma si paga fino a 10 euro per notte nei 5 stelle e 7,50 euro nei 4 stelle. A Firenze 8 euro, a Milano 7 e a Napoli 6 euro per notte. Il risultato è chiaro: una famiglia di quattro persone che soggiorna per una settimana in una sistemazione a 4 stelle a Roma, si ritrova a pagare oltre 200 euro solo di tassa di soggiorno. Se un piccolo hotel di 8 camere lavora con una media di 60 pernottamenti al mese nel periodo gennaio-marzo – e applica una tassa di 7.50 euro – il Comune incassa oltre 14mila euro solo da quella struttura. Considerando che Roma conta più di 1.200 alberghi, l’introito complessivo è enorme. A volte la tassa non è inclusa nei preventivi iniziali e può arrivare a pesare quanto una notte in più di soggiorno. È un aggravio che disincentiva famiglie e turisti con budget medio, rendendo alcune destinazioni meno accessibili e meno competitive.
Anche gli albergatori protestano, chiamati a raccogliere la tassa e versarla al Comune spesso senza garanzie su come verranno usati quei soldi né benefici tangibili per il comparto.
Il principio che regge la tassa è corretto, ma per non trasformarsi in un balzello occulto servono regole precise, trasparenza e tariffe eque. Utile sarebbe una riforma nazionale che imponga obblighi di rendicontazione pubblica e accessibile, preveda tariffe differenziate per famiglie o soggiorni lunghi e (importante) vincoli l’uso dei fondi a spese turistiche verificabili.
Soltanto così si potrà garantire che la city tax resti una risorsa al servizio del turismo, non un prelievo arbitrario che ne mette a rischio la credibilità.

Matteo Grossi
Scritto per La Ragione