Vai al contenuto

LA RAI PIU’ A PARTE CHE DI PARTE

Perde le sfide degli ascolti e non vince quelle della qualità – 

La stagione televisiva in corso rischia di essere ricordata come una delle più difficili per la Rai. Mediaset ha preso il largo, forte di numeri chiari e inequivocabili. Il prossimo 27 settembre il Consiglio di amministrazione dell’azienda di viale Mazzini sarà chiamato a un confronto interno, ma i dati parlano già da soli e raccontano di un’azienda in affanno, schiacciata da una concorrenza commerciale che non dovrebbe nemmeno essere il suo terreno naturale.
Già, perché la Rai – va ricordato – è servizio pubblico. E (o dovrebbe essere) cultura, pluralismo, informazione autorevole, crescita sociale. Eppure da tempo sembra aver smarrito questa identità, scegliendo invece di seguire format commerciali e conduttori popo-lari, nel disperato tentativo di pareggiare i conti con Mediaset. Ma Mediaset è un’azienda privata, vive di pubblicità, insegue profitti, fa spettacolo per guadagnare ed è giusto così. Al contrario, la Rai vive di canone e quindi grazie al contributo del cittadino.
Ha un obbligo di qualità, non soltanto di ascolti. Tuttavia oggi sembra vergognarsi di questa missione e il risultato è palese: non soltanto non riesce a battere l’azienda di Pier Silvio Berlusconi sul piano della quantità, ma perde anche la propria unicità. Perde la sua ragion d’essere e con essa pure l’autorevolezza.
Singolare e alquanto curioso, in queste settimane, è stato il sorpasso di ascolti nel preserale di Gerry Scotti (24,7%), volto storico e consolidato che ha superato Stefano De Martino (21,1%), scelto dalla Rai come scommessa generazionale. Doveva essere il segnale del cambiamento, un ponte verso il pubblico più giovane, ma la scommessa a oggi è fallita per assenza di lungimiranza. La televisione pubblica non costruisce più progetti: insegue mode, sperando che basti. Ora si vocifera di un possibile rimpasto nel Cda.
Nuove nomine, nuovi equilibri. Ma chi pensa che basti cambiare poltrone per invertire la rotta, sbaglia diagnosi. Il problema non è soltanto chi guida la Rai, ma dove la si vuol portare. Se l’obiettivo è soltanto quello di inseguire la percentuale di ascolto, la sconfitta è già scritta; ma se invece si ricomincia a puntare sulla qualità, sulla formazione, sull’approfondimento, allora sì che la Rai può tornare centrale.
Da decenni si sente ripetere che, per guarire dalla sua malattia, alla Rai serve una nuova e seria riforma del modello di governance, perché il Consiglio di amministrazione non può continuare a esser lottizzato tra i partiti ma deve basarsi su competenza, indipendenza e visione, puntando a una vera depoliti-cizzazione. E sempre da decenni leggiamo e ascoltiamo proposte valide ma mai concretizzate, come la nomina dei membri attraverso selezioni pubbliche o autorità indipendenti al posto di Camera e Senato, l’attribuzione della gestione a una Fondazione autonoma sul modello della Bbc nel Regno Unito, la valutazione del direttore generale o dell’amministratore delegato, con più poteri e meno influenze politiche sul Consiglio di amministrazione. Tutto questo non è utopia.
È una condizione necessaria per ridare dignità e futuro al servizio pubblico.
Investire in cultura, divulgazione e informazione è la terapia giusta. Alla fine di questa stagione sarebbe bello poter dire che la televisione pubblica ha vinto non perché ha fatto più ascolti ma perché ha fatto meglio. Agli ascolti pensi chi vuole inseguire le classifiche. La Rai, diversamente, pensi a distinguersi per valore e credibilità.

Matteo Grossi
Scritto per La Ragione