Viviamo nella ricchezza e ci atteggiamo alla povertà –
I quotidiani di questi giorni mi hanno ringiovanito di parecchi anni. Quando sentii parlare per la prima volta di rivoluzione industriale e lotta sindacale per diminuire le ore di lavoro, mi trovavo seduto al banco di scuola e avevo circa 15 anni. Trent’anni fa capii che quella rivoluzione fu utile perché difendeva i lavoratori nelle fabbriche e nelle miniere, costretti a turni massacranti di 12 o 16 ore al giorno, donne e bambini inclusi. Poiché venivo a conoscenza di un evento accaduto circa due secoli prima, mi ha stranito che nel XXI secolo i sindacati lottino per togliere un giorno alla settimana lavorativa. Il motivo dello slogan del ‘Campo largo’ («Lavorare meno, guadagnare uguale e vivere meglio») nulla ha a che vedere con la lotta dell’Ottocento, ma rispecchia totalmente il modello di vita in cui siamo abituati a vivere oggi.
Ci siamo imposti, come diritto, di migliorare la nostra vita (il che è un bene, ma occhio agli eccessi che diventano abitudini…). Leggo di una nuova lotta per ridurre lo stress e aver più svago e subito penso allo shopping: a fronte di uno stipendio uguale o inferiore, i giorni della settimana in cui si svolgono le attività personali sono occasioni in cui spendere, in un contesto in cui i prezzi sono sempre più alti. Vogliamo una miglior vita e un nuovo mondo, ma non ci accorgiamo che stiamo vivendo già nel nuovo mondo e lo stiamo vivendo nella sua parte migliore. Addirittura nascondiamo a noi stessi di vivere il periodo più bello e ‘comodo’ che il mondo abbia mai visto. A chi sostiene che togliendo 8 ore la settimana la produttività aumenta perché i lavoratori – meno stanchi e più motivati – tendono poi a lavorare con maggior efficienza, rispondiamo che lavorando di meno si otterrebbe una minore produzione e una minore ricchezza. E i dipendenti potrebbero dover affrontare una maggiore pressione per completare la stessa quantità di lavoro in un periodo di tempo più breve. Quindi la tesi non sta in piedi.
La realtà vuole che, per molte imprese, ridurre l’orario di lavoro mantenendo gli stessi livelli salariali comporterebbe un significativo aumento dei costi operativi, specialmente se devono assumere più persone per compensare le ore di lavoro ridotte. Stando alla prova dei fatti, in Italia ci sono pochi lavoratori e troppi disoccupati, quindi l’idea di accorciare la settimana avrebbe potuto funzionare se avessimo avuto più posti di lavoro che lavoratori. Tuttavia l’adattamento alla settimana corta porterebbe a costi onerosi per la riorganizzazione del personale e, in mancanza di produttività, a stipendi certamente inferiori.
E se la produttività, invece di aumentare, diminuisse? Chi lo dice allo Stato, che già naviga in serie difficoltà, che anche le sue entrate fiscali potrebbero diminuire, riducendo così i fondi disponibili per i servizi pubblici?
Il detto “”Meno si fa, meno si farebbe” è un intramontabile dei luoghi comuni. Ma anche uno dei più realistici in assoluto.
Matteo Grossi
Scritto per La Ragione