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NON SI DIMAGRISCE PER LEGGE

L’obesità divenuta malattia riconosciuta nelle norme – 

Il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge per la prevenzione e la cura dell’obesità, confermando il testo già licenziato dalla Camera. Il provvedimento, di iniziativa parlamentare, è quindi legge: l’obesità è stata riconosciuta ufficialmente come malattia. Il testo prevede un programma per affrontare questa patologia, un piano di formazione per medici e pediatri e l’istituzione presso il Ministero della Salute di un Osservatorio ad hoc. La maggioranza ha votato a favore, mentre le opposizioni si sono astenute chiedendo due cose: maggiori risorse e il pieno inserimento dell’obesità nei Livelli essenziali di assistenza (Lea). Richieste sensate.
Fin qui, tutto bene. Ma come sempre, in Italia, il passaggio dalla legge alla realtà è più lungo di quello tra il frigo e il divano. Riconoscere l’obesità quale malattia è un passo importante, ciononostante non è bastevole una norma ben scritta per affrontare una questione che è insieme sanitaria, sociale, culturale e persino economica.
Un’assurdità racconta bene l’evoluzione (o l’involuzione) delle nostre abitudini, se nel secolo scorso i nostri nonni faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena e oggi invece si paga un nutrizionista per imparare a mangiar di meno. Allora si contavano le fette di pane, ora si contano le calorie. Eppure i dati sono chiari: nel nostro Paese il 12% degli adulti è obeso, il 40% è in sovrappeso. E tra i bambini va anche peggio, dal momento che quasi uno su tre ha problemi legati al peso. Non si tratta soltanto di estetica, è una questione di salute pubblica che scuce ogni anno miliardi di euro dalle tasche del Servizio sanitario nazionale.
L’idea di formare meglio medici e pediatri è giusta e lodevole, così come quella di creare un Osservatorio per monitorare e studiare il fenomeno. Ma – come sovente accade – c’è il rischio che si tratti dell’ennesimo ente che osserva senza agire. Dove si scrivono report, si organizzano convegni, ma intanto i bambini continuano a mangiare merendine e a muoversi soltanto col dito sul touchscreen. Fare prevenzione significa educare le famiglie, lavorare con le scuole, investire sulla consapevolezza, non solo medicalizzare il problema quando ormai è esploso.
E qui arriva il punto: le cose vanno fatte seriamente, altrimenti poi tocca dare ragione a chi in passato – seppur tra mille polemiche – propose la famosa Sugar Tax. Allora fu derisa, bollata come mossa punitiva poiché, se lo Stato vuole fare qualcosa di utile, non può limitarsi a tassare ma deve investire su consapevolezza, cultura alimentare e ambiente, altrimenti finisce per creare più ingiustizie che benefici. Se non si agisce con prevenzione strutturata, alla fine si arriva sempre alla coercizione fiscale o al divieto imposto. A quel punto le proteste si sprecano. Ma quando la politica non sa prevenire, poi finisce per dover reprimere.
Questa legge è un segnale importante, ma da sola non basta a far dimagrire l’Italia. Urge concretezza e, più di ogni altra cosa, una pianificazione solida nel tempo. Non ha più senso limitarsi agli annunci, per poi abbandonare ogni impegno al caso. Di più, se vo-gliamo: abbiamo bisogno anche di responsabilità individuale poiché l’obesità non è una colpa, ma la salute è una scelta. Se lo Stato può – e deve – aiutare, formare e curare, poi però tocca al cittadino decidere cosa mettere nel carrello, nel piatto e nella propria pancia. Altrimenti fra qualche anno torneremo a scrivere nuove leggi e nuovi piani, a creare nuovi Osservatori. E magari a discutere di nuove tasse. A quel punto la situazione si farà pesante, in tutti i sensi.

Matteo Grossi
Scritto per La Ragione