Vai al contenuto

PIU’ CANDIDATI CHE CITTADINI

La legge che consente di candidarsi e prendere lo stipendio senza lavorare – 

 

Nel cuore del Parco nazionale d’Abruzzo, tra le montagne della provincia dell’Aquila, si trova Bisegna, un piccolissimo Comune che conta sì e no
200 abitanti. Il 25 e 26 maggio questo tranquillo paese sarà palcoscenico di
una commedia mai vista né sentita: una tornata elettorale con ben 25 liste in corsa e 250 candidati potenziali (dunque più dei residenti stessi) pronti a ‘governarlo’.
La notizia – ormai oggetto di discussione tra le piazze, i bar dei paesi vicini, le testate locali e ogni social – sta sollevando non pochi imbarazzi. Per dirla alla Fantozzi: «Qualcuno è stato colto da un leggero sospetto», ossia che molte di queste liste siano composte da persone completamente estranee al territorio, in particolare da appartenenti alle Forze dell’ordine, che sfruttano una scappatoia legale per ottenere giorni di permesso retribuiti. Se vogliamo essere sinceri, nel panorama elettorale italiano le liste civetta sono sempre esistite poiché spesso servono a garantire a un candidato principale di non restare da solo in corsa, evitando così il rischio di non raggiungere il quorum richiesto per validare le elezioni. In tempi di astensionismo crescente, nessuno vuole che il proprio Comune venga commissariato per mancanza di competizione.
Tuttavia a Bisegna la situazione è ben diversa: qui non si tratta di proteggere la tenuta democratica del Paese, ma di un’anomala e sospetta proliferazione di liste nate non per sostenere un progetto amministrativo ma per approfittare di un vuoto normativo che consente a chi non ha legami con il territorio di candidarsi e intascare giorni di aspettativa retribuita. In base alla normativa vigente, un agente di polizia che decide di presentarsi alle elezioni deve infatti andare in aspettativa dal momento in cui la candidatura viene accettata e fino al giorno delle elezioni. E durante questo periodo viene normalmente retribui-to. Non è necessario essere residenti nel Comune dove ci si candida. In più, nei paesi con meno di mille abitanti non serve neppure raccogliere le firme per presentare una lista. Il risultato? Una valanga di candidature
‘strategiche’, concepite soltanto per prendersi un periodo di pausa pagato.
Nel corso degli anni esponenti politici di diversi schieramenti hanno tentato di porre un freno a questo fenomeno. Tra questi l’ex deputato Gianni Melilla, all’epoca esponente di Sinistra Italiana – Movimento Democratico e Progressista (Mdp), che presentò alcune proposte di legge volte a eliminare l’aspettativa retribuita, sostituendola con un semplice permesso non pagato. Un’iniziativa simile arrivò anche da un’altra sponda politica: quella di Pierantonio Zanettin, oggi senatore ma allora deputato di Forza Italia. Nessuna di queste è mai arrivata in fondo al percorso parlamentare. Dal canto loro, i sindacati di polizia difendono la possibilità per i propri iscritti di partecipare alla vita democratica del Paese ma ammettono che, se qualcuno ne approfitta, è giusto intervenire con controlli più severi.
Qui non si tratta di limitare la partecipazione democratica: si tratta di rispetto. Candidarsi in un’elezione dovrebbe essere un atto di responsabilità e di servizio, non un espediente per starsene a casa con lo stipendio assicurato. Quando poi a farlo sono persone che lavorano per lo Stato, pagate con i soldi dei cittadini, il danno è doppio: si prendono gioco sia della legge che della fiducia pubblica. Usare il diritto elettorale come scorciatoia è un insulto a chi la democrazia la vive per davvero, ogni giorno, nei piccoli Comuni dimenticati d’Italia.

 

Matteo Grossi
Scritto per La Ragione