In un piano del governo la resa alla denatalità –
Nessun annuncio in pompa magna, nessuna conferenza stampa. Solo un Pdf caricato in silenzio sul sito del Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud: è il Piano Strategico delle Aree Interne (Psnai) 2021-2027, approvato nel marzo 2025 con anni di ritardo e reso pubblico in piena estate. Un documento tecnico forse persino noioso da leggere sotto l’ombrellone, se non fosse per un passaggio che in una democrazia matura dovrebbe scuotere l’intero Parlamento. Lo si trova a pagina 45, nell’Obiettivo 4 “Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile”. Lì si legge che «queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento». Non è un refuso. E non è neppure una provocazione intellettuale. E la linea strategica dello Stato nei confronti di quasi 4mila piccoli Comuni dove vivono circa 13 milioni di cittadini distribuiti su oltre il 58% del territorio nazionale.
Territori lontani dai servizi essenziali: strade, scuole, ospedali, per intenderci.
Nel documento si stabiliscono le linee guida con la distinzione fra territori «rilanciabili e territori che non hanno più un futuro». Questi ultimi «presentano una struttura demograficamente compromessa, tassi di natalità irrilevanti e nessuna prospettiva di sviluppo. E dunque non meritano investimenti per invertire la tendenza allo spopolamento». In sostanza significa che non si costruiranno scuole poiché vi sono pochi bambini; non si tenterà di attrarre nuovi residenti, dal momento che le probabilità di successo sono giudicate basse. All’opposto, si pianificherà un «welfare del tramonto»: assistenza minima, sanità di base con qualche servizio domiciliare. Ma nulla che possa generare crescita.
Lo scorso giugno alcuni amministratori, studiosi e attivisti sono stati invitati dal Centro studi sulle Relazioni territoriali ed economiche (Cerste) per denunciare quello che definiscono non un piano bensì un verdetto.
In effetti, se la Repubblica – l’articolo 3 della Costituzione impegna a «rimuovere gli ostacoli» alla piena partecipazione dei cittadini – decide che tali territori non devono essere salvati ma solo accompagnati, qualcosa s’é rotto. Non nella tecnica, ma nella volontà politica. Nel resto d’Europa (Francia, Svezia, Finlandia e Germania) le aree interne e rurali sono oggetto di investimenti. In Italia si accetta invece la decadenza e la si chiama strategia.
Perché allora investire oltre un miliardo di euro del Pnrr per il rilancio dei borghi con l’obiettivo dichiarato di «non lasciare indietro nessuno», valorizzare il patrimonio culturale diffuso, promuovere il turismo lento e sostenere le economie locali e poi affermare che «non tutti i territori possono essere recu-perati» perché troppo spopolati, isolati o demograficamente fragili per sostenere un vero piano di rilancio? Chi ha memoria ricorderà quando furono destinati 20milioni di euro a ciascuno dei 21 borghi (uno per ogni regione) al fine di rigenerare cultura ed economia locale. La contraddizione è stridente: da un lato si finanzia la rinascita, dall’altro si decide per una morte assistita.
Non si può parlare di coesione se si accetta che alcune comunità vengano abbandonate.
Non si può parlare di sviluppo sostenibile se si sceglie di concentrare le opportunità solamente nei centri già forti, lasciando che il resto si svuoti in silenzio.
Matteo Grossi
Scritto per La Ragione