Non solo il diritto alla salute, ma anche quello dell’aborto cambia da luogo a luogo –
In Sardegna sarà possibile ricorrere all’aborto farmacologico anche a domicilio, in via sperimentale. In Liguria invece no. Anzi, neppure se ne parla. Un ordine del giorno presentato dai consiglieri regionali di Alleanza Verdi-Sinistra per introdurre una sperimentazione è stato respinto. Due Regioni, due visioni con-trapposte, due diritti diversi. Ma un solo Paese, almeno sulla carta. Ed è proprio questo il punto.
Nel luglio del 2020 il Ministero della Salute, con un atto ufficiale, ha aggiornato le linee guida sull’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica. Ha stabilito, tra le altre cose, che la procedura può essere eseguita nei consultori, nei poliambulatori pubblici e persino a domicilio se le condizioni cliniche e organizzative lo consentono. Cinque anni dopo quella disposizione nazionale si è trasformata in una grottesca cartina d’Italia, nella quale ogni Regione fa come meglio crede o come meglio politicamente le conviene. E questo altro non è che il frutto avvelenato della regionalizzazione sanitaria. Siamo arrivati al punto in cui il diritto alla salute è un’ astrazione geografica che cambia da Regione a Regione. In Sardegna si può scegliere di interrompere la gravidanza tra le proprie mura di casa, in Liguria no. In Emilia-Romagna la pillola RU486 è ampiamente disponibile mentre per averla in Lombardia serve ancora una corsa a ostacoli. C’è chi applica le linee guida, chi le ignora e chi fa finta di non averle mai lette. Tutto questo non ha veramente senso.
Ci hanno insegnato che il diritto alla salute è universale e non negoziabile. E se è vero che la Costituzione riconosce alle Regioni la competenza in materia sanitaria, è altrettanto vero che esiste un livello essenziale di prestazioni che dev’essere garantito a ogni cittadino, da Vipiteno a Lampedusa. La politica deve trovare il coraggio di decidere, d’altronde è un suo diritto.
Ma non può farlo ignorando i dati, la scienza, le necessità sociali. E – ancor più importante – non può piegare un diritto fondamentale come l’interruzione volontaria di gravidanza agli equilibri di coalizione o alla pancia del proprio elettorato. Dal momento che non si governa a colpi di ideologia, ancor meno si tutelano le persone negando loro scelte, autonomia e responsabilità. Che una donna possa o non possa abortire in casa non può dipendere dalla sua residenza, così come non possono dipendere dalla geografia l’accesso a un consultorio, la disponibilità di farmaci o il numero di medici non obiettori.
Il nodo è politico in quanto riguarda le decisioni istituzionali: sono le giunte regionali a scegliere se, come e dove applicare le linee guida nazionali sull’aborto farmacologico. Tuttavia il nodo è finanche culturale poiché dietro a ogni decisione politica ci sono visioni del mondo, pregiudizi, valori e (troppo spesso) tabù.
L’aborto in Italia resta un tema fragile che divide le coscienze, tanto che in alcune aree del Paese è ancora considerato un argomento da evitare o da ostacolare, più che un diritto da tutelare.
La regionalizzazione spinta ha frammentato l’Italia logorando il principio stesso di uguaglianza. E ora questo effetto ce lo troviamo davanti in tutta la sua evidenza: due donne con lo stesso problema, lo stesso bisogno, lo stesso diritto, ma due risposte diverse perché vivono in Regioni diverse governate da colori politici diversi. Se questa è l’Italia dei diritti, allora è un’Italia sbagliata.
Matteo Grossi
Scritto per La Ragione