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RICERCATORI ITALIANI DI SUCCESSO

Molti di loro si trovano all’estero e in sistemi più votati all’innovazione – 

In questi giorni il Consiglio Europeo della Ricerca (Erc) ha annunciato l’assegnazione di 728 milioni di euro a 349 ricercatori impegnati in progetti d’eccellenza in 25 Paesi , europei. Un investimento massiccio nella ricerca di base: quella libera e rischiosa, che non promette ritorni nell’immediato ma che storicamente ha generato alcune delle più grandi rivoluzioni tecnologiche e scientifiche del XX e XXI secolo.
Sembra che, in un’epoca dominata da una forma di doppio monopolio tecnologico di Stati Uniti e Cina, l’Unione Europea non rinunci a puntare su idee e menti brillanti. E in questo campo l’Italia (per quanto spesso sottovalutata) non soltanto partecipa, ma primeggia. Il nostro Paese si colloca al settimo posto per progetti ospitati sul territorio nazionale, con 17 sedi di ricerca premiate dall’Erc. Un piazzamento che potrebbe sembrare modesto se confrontato con Regno Unito, Germania e Paesi Bassi. Tuttavia, se si guarda alla nazionalità dei singoli vincitori, la prospettiva cambia decisamente poiché i ricercatori italiani sono il secondo gruppo più numeroso tra i premiati, con 37 connazionali selezionati, preceduti solamente dai tedeschi (48) e davanti ai britannici (33). Ed è qui che emerge la vera grandezza, per il fatto che gli italiani conquistano risultati eccellenti indipendentemente dal luogo in cui lavorano. Molti dei nostri migliori talenti oggi operano fuori dai confini nazionali: un fenomeno a volte descritto come “fuga dei cervelli” ma che sarebbe più corretto definire esportazione di valore aggiunto a causa di un contesto interno meno competitivo.
Fra i progetti finanziati si trovano studi che spaziano dalla salute mentale all’ immunologia, passando per la fisica quantitativa e l’ingegneria avanzata. E ancora: dalla dinamica delle reti neurali ai meccanismi di risposta del sistema immunitario, finanche alle frontiere della sismologia. Questi non sono temi marginali ma sfide critiche del nostro tempo – dalla comprensione dei disturbi psichiatrici alla lotta alle malattie croniche – e sono affidati a menti italiane fidate della comunità scientifica internazionale.
La nostra presenza nella classifica del Consiglio Europeo della Ricerca ci rivela due cose. Primo, che siamo ben capaci di competere ai massimi livelli globali, tanto che i nostri ricercatori convincono comitati internazionali a finanziare le loro idee, spesso davanti a candidature di gruppi di altri Paesi con un quadro nazionale più agevole. Secondo, che il talento italiano è mobile e ambizioso, ma la realtà nazionale – finanziariamente e strutturalmente – spesso non è la migliore possibile. Questo dev’essere interpretato non come una resa ma come un richiamo a investire di più nel nostro sistema, per trattenere e attrarre chi può contribuire in misura maggiore. Perché un Paese che ispira i migliori a restare è un Paese che vince nel lungo periodo.
Nel mezzo della competizione globale per l’innovazione, l’Europa conferma con questi 728 milioni che scommettere sulla ricerca di frontiera paga, socialmente e anche strategicamente. E l’Italia, pur con tutte le sue contraddizioni, seguita a essere protagonista e non semplice spettatrice. Se sapremo ascoltare questa realtà con lungimiranza – investendo in infrastrutture, condizioni salariali performanti, percorsi stabili per chi ricerca – allora potremo tradurre più vittorie individuali in un vantaggio collettivo e duraturo. Perché a conti fatti la ricerca non è un costo ma la radice invisibile delle industrie di domani, delle cure di domani, delle tecnologie di domani.

Matteo Grossi
Scritto per La Ragione