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TOGLIERE IL VELO AL PREGIUDIZIO

La libertà di levarlo ma anche d’indossarlo – 

C’è chi crede che la libertà si misuri in centimetri di stoffa. C’è chi pensa che, a luglio, un velo sul capo sia l’equivalente di un sacco dell’immondizia. E poi c’è la realtà, che è un po’ più testarda e molto meno fotogenica delle conferenze stampa.
L’eurodeputata della Lega Silvia Sardone ha recentemente dichiarato che tutti i tipi di velo islamico sarebbero simboli di sottomissione. Ma non s’è fermata qui. Ha aggiunto che «una donna libera non ha voglia, con questa temperatura, di andare in giro con un sacco dell’immondizia addosso». In una sola battuta (evviva l’arte della sintesi): antropologia da ombrellone, sociologia da condizionatore e zero grammatica della libertà.
È bene chiarire che il velo islamico, come ogni simbolo religioso o di costume, può pure essere stato imposto. Accade. E quando accade è un problema. Ma può anche essere scelto. Accade pure questo. Ed è lì che la libertà si misura per davvero: nel diritto di dire no, ma anche nel diritto di dire sì. Uno Stato laico – quello in cui crediamo – non ha il compito di stabilire quale religione o simbolo sia ‘giusto’. Ha il dovere di garantire che nessuno lo imponga. Ciò che conta non è l’indumento, ma l’intenzione con cui viene portato. Vale per il velo islamico come per il crocifisso al collo o il turbante sikh.
Vietare il velo nelle scuole – come vorrebbe l’eurodeputata – può sembrare una battaglia di civiltà ma rischia di diventare l’opposto, cioè un’imposizione statale che toglie libertà per punire chi, si presume, già non ne ha. Doppia ingiustizia. La libertà non si misura neppure in gradi centigradi e non è lo Stato a dover stabilire se una donna abbia voglia o meno di indossare un velo. Lo deve stabilire lei. Chi davvero vuole combattere l’integralismo – e non semplicemente fare rumore – investa in educazione, confronto, diritto e non pensi a creare polemica a ogni costo. Perché, alla fine, la vera sottomissione non è quella a una religione ma al pregiudizio.
Torniamo al secolo scorso. Le nostre nonne – italiane, cattoliche e cresciute in un’Italia dove l’Islam nemmeno si nominava – il velo lo portavano eccome. In chiesa, certo, ma anche fuori. Per fede, per abitudine, per rispetto o per lutto. Non erano meno donne o meno libere per questo. E le suore? Ancora oggi portano il velo e non lo fanno perché sono obbligate ma perché l’hanno scelto. La libertà non dipende da quel che portiamo addosso, ma consiste nella possibilità di scegliere. E nessuno Stato può sapere cosa spinge una persona a indossare qualcosa: fede, cultura, tradizione o semplicemente volontà personale. Ancora oggi quel velo, in tante zone del Sud d’Italia, è parte viva delle tradizioni. Non era – e non è mai stato – un «sacco dell’immondizia». È stato ed è un simbolo, un gesto, una scelta.
Un politico che lancia certe frasi non difende la libertà: la mette in pericolo. Non protegge le donne: alimenta le tensioni. E questo è pericoloso. L’Italia fortunatamente è un Paese libero. Una persona – uomo o donna – può vestirsi come vuole: col velo, senza velo, con i pantaloncini corti o con la tunica. La libertà è questa. L’unico limite che lo Stato può e deve porre riguarda la sicurezza: se ti ferma un agente, devi farti identificare. Che tu abbia in testa un casco, un velo o una maschera di carnevale, sei tenuto a mostrare il volto e dire chi sei. Punto.
Essere laici non vuol dire combattere la religione. Vuol dire rispettare tutti e garantire la libertà di ognuno. Anche e soprattutto quando fa scelte diverse dalle nostre.

Matteo Grossi
Scritto per La Ragione